mercoledì 14 agosto 2013

GG Rubes racconta - fiera delle Grazie


Tutti alle Grazie in bicicletta … “a magnar el cudeghin”
 
 
 

Mancano poche ore e poi bicicletta in spalle e via, anche se non saremo noi a portarla ma sarà essa a trasportarci, infatti, a noi resta solo che pedalare, con destinazione le Grazie, ossia il Santuario della Beata Vergine Maria delle Grazie. Quest’anno anche il Vescovo Roberto Busti approfitterà della nuova pista ciclabile che collega Mantova al Santuario per utilizzare la sua bicicletta. Vediamoci il positivo in questa biciclettata, non perché c’è la crisi, ma per evocare i “bei tempi” quando alle Grazie ci si andava ... col miglior mezzo a disposizione.

Tiglio e Pina sono i nomignoli dei miei nonni i quali abitavano ai Gazzuoli, piccola frazione di Asola. Nonna Pina, cogli occhi che scrutano nella memoria, mi racconta che nel giorno dell’Assunta, a Ferragosto, “a buon ora ci si alzava - si svegliavano quando ancora c’era buio - Nonno e Nonna con tua mamma e tua zia sulla canna della bici e si andava a messa alle Grazie”…

… Biciclette acquistate coi proventi del doppio lavoro, infatti il nonno quando aveva un po’ di tempo pescava, quando i fossi erano pieni di pesce, e la nonna andava a piedi ad Asola a vendere ai signorotti il pescato. Da giorni il nonno aveva controllato e preparato le biciclette, legando dei cuscini alle canne delle biciclette e a quella da donna aveva legato due canne tra il manubrio e la sella, questi cuscini difatti cercavano di evitare dolori al “sederino” delle proprie figliolette.

Il sole lanciava i primi raggi quando le famigliole partivano dai Gazzuoli, molti del paese andavano alle Grazie, e il nonno aveva caricato la figlia più grande sulla canna e sul portapacchi il sacco colla merenda, preparato la sera prima dalla moglie. Nel “sacco” c’erano alcuni panini del giorno prima, spesso in realtà erano fette di polenta, un pezzo di salame e l’immancabile bottiglia di lambrusco, rinfrescata durante la notte nel ruscello dietro casa.

Pedalata dopo pedalata dai Gazzuoli ci si portava a destinazione e qualche famigliola partiva da più lontano: la mamma di Betty, ci racconta che i suoi Nonni “i partiò dà Cavrianö”, da Cavriana: “le prime olte se andao a pé, dopo i noni cul temp ie pasat al caret”.

Molte famigliole delle Colline moreniche residenti in prossimità del Mincio raggiungevano le Grazie utilizzando la barca e a conferma di questo racconto c’è un evento storico legato alla Beata Paola Montaldi, 1443 Volta Mantovana – 1514 Mantova, salvata per miracolo dalle acque del Mincio mentre colla famiglia raggiungeva le Grazie per onorare l’Assunta il 15 agosto...

Raro superare qualcuno se non anziani in bicicletta o altri piedi, spesso invece ci si vedeva sorpassati o da spericolati giovanotti in bici, sempre pronti a correre per sbirciare qualche rara “gonna” al vento, o dalle prime motociclette o ancora più di rado accadeva di essere impolverati dai signorotti che affrontavano il viaggio colle prime autovetture. Non mancava inoltre, come accade ancora oggi durante un lungo viaggio, “papà mi scappa la pipì, fermati!”. Insomma ognuno utilizzava il mezzo permesso dal proprio portafoglio.

La Nonna non voleva mancare l’appuntamento, la prima messa delle sei e mezza, mentre il Nonno in se si pregustava mentalmente coll’acquolina “el cudighin”, il cotechino delle Grazie, perciò ogni fermata voleva dire recuperare il tempo perso. Arrivati c’era la Santa Messa, qualche miscredente che non “prendeva comunione” prima si avviava all’osteria “per eser el prim a tastà el cudeghin”, premio del viaggio, ma comunque il miscredente alla Santa Messa partecipava puntualmente.

Dopo la funzione tutti, “Om, done e putei”, andavano all’Osteria a mangiare “el Cudeghin”. Anche il Nonno avrebbe voluto prima passare dall’Osteria, almeno per sentire l’odore del cotechino, ma … come sempre le donne comandano.

Dopo aver portato i bambini a vedere i lavori dei madonnari e aver fatto merenda lungo il Mincio, si tornava a casa. Per i molti la giornata di festa terminava accudendo le bestie in stalla, per altri c’erano i lavori nei campi. Una volta per il mondo agricolo e per la gente che vi ruotava intorno non esisteva “la festa” ma ogni piccola occasione per poter stare coi propri cari diventava una grande festa.

Il cotechino nella tradizione mantovana era ed è quel piatto che deve essere gustato nei giorni di gran festa. Mio nonno Tiglio quando i “cupàa el purcel” e preparava i cotechini, prendeva la vescica del maiale e con acqua bollente e aceto la lavava, e dopo averla gonfiata la riempiva di impasto, quando questa era pronta restava appesa in cantina assieme agl’altri salumi fino al 26 luglio. Ai Gazzuoli il 26 luglio è Sagra, giorno di gran festa in quanto ricorrenza di Sant’Anna patrona della frazione, e perciò si invitavano a casa i parenti più prossimi e dopo la Santa Messa e, per gli uomini un bicchiere di vino da Emma all’ Osteria del paese, tutti a casa a mangiare “la isiga”, la vescica. Al Nonno spettava tagliarla e offrire le porzioni agli invitati.

Una volta ogni famiglia produceva i salumi per il proprio fabbisogno, esistevano anche segreti per allevare il miglior maiale, quindi ogni descrizione sulla produzione del cotechino potrebbe sembrare non veritiera. Comunemente la regola stabiliva che la carne e il grasso migliori diventavano salami, le cotiche, la carne sanguinosa, quella ricca di nervi, quella definita meno nobile come la lingua, la milza, il cuore e l’osso dello stomaco divenivano parti dell’impasto del cotechino e poi erano insaccati nel budello. Prima di essere insaccate, queste carni, erano macinate molto finemente e poi impastate tra loro aggiungendo noce moscata, chiodi di garofano, cannella, pepe e l’immancabile sale, la quantità e la tipologia di queste droghe fa parte del segreto di ogni “mashalèr” o di ogni famiglia.

Anche nella cottura del cotechino vi sono alcuni accorgimenti da rispettare. Si prenda un canovaccio, mai lavato col detersivo, avvolgete ben stretto il salume se necessario legatelo, immergetelo in acqua fredda e portatelo a bollitura. Dopo la prima bollitura, una decina di minuti, si cambi l’acqua, e quindi si termini la cottura del cotechino. Quando pronto gustatelo con polenta fresca oppure accompagnato col purè, che sia preparato con delle vere patate, si può sposare anche con un cucchiaio di Mostarda Mantovana. Gustatelo anche in un panino, come si fa alle Grazie.

A questo punto resta una scelta difficile: il vino! La tradizione vuole che si beva Lambrusco Mantovano, qualcuno apprezza il Merlot delle Colline moreniche mantovane, ma vi sono degni estimatori che propongono dei vini bianchi con una certa struttura sempre della Collina. In realtà in questi giorni ho provato uno spumante rosé prodotto in “Collina” con della Croatina. Provatelo è un’esperienza molto particolare.

Buon ferragosto ricordando che il Troppo stroppia.

Graziano Giuseppe Rubes

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